La demenziale accusa del politicamente corretto all’Occidente euroamericano di aver inquinato la terra, di aver provocato il surriscaldamento terrestre, il cambiamento climatico globale con le sue manifestazioni violente, la desertificazione di certe aree del pianeta, le carestie e le migrazioni epocali clandestine africane.
La verità è che l’Africa è fortunata perché ricca di sole e della sua energia con una temperatura continentale media che è circa tre volte quella dell’Europa e del Nordamerica dove gli uomini per sopravvivere al clima più freddo e quindi ad un ambiente più inospitale hanno dovuto fin dal loro arrivo nel Paleolitico, sviluppare tenologie di sopravvivenza, di riscaldamento, di abbigliamento, di costruzione delle abitazioni e dei luoghi di lavoro, di adattamento dell’habitat così da poterci continuare a vivere. Gran parte di questa esperienza, della scienza acquisita e delle tecnologie sviluppate sono andate a beneficio dell’umanità intera e anche dell’Africa e di tutti i paesi meno sviluppati.
Dal punto di vista energetico l’Africa è più ricca dell’Occidente perché ha più energia solare gratuita, la vera manna dal cielo; l’Occidente è assai più povero e si deve deve procurare l’energia che manca con il lavoro, il sacrificio, la ricerca scientifica e tecnologica e lo sfruttamento delle risorse della terra dove vi è già un accumulo potenziale di energia o che si può accumulare: biomassa, idrocarburi, acqua in quota, vento, nuclei speciali, calore dentro la massa della terra, i raggi del sole.
L’Africa trae grandi ed essenziali benefici per il suo benessere e il suo sviluppo dalla scienza e dalla tecnologia occidentali, nonché dalla valorizazzione d’uso che l’Occidente euro americano fa delle sue risorse agricole, forestali, minerarie e della sua energia fossile.
Anche la Cina, l’India, il Giappone, l’Indocina, l’Indonesia e l’area iranico-siro-araba e mediorientale nonché il centro e il sud del continente americano hanno tratto e traggono grandi benefici dall’Occidente euroamericano, dalla sua scienza e dalla sua tecnologia, nonché dal fatto che l’Occidente sa valorizzare e mettere a frutto o sfruttare le risorse energetiche, minerarie e agricole di questi territori, comprandole e pagandole, estraendole e lavorandole, coltivandole, ecc. .
Le demenziali menzogne sull’Africa del vittimismo africano
capitolo 12) Clima e siccità in Africa
Calamità in Africa, disastri provocati dall’uomo
Anna Bono
17-10-2022
https://lanuovabq.it/it/calamita-in-africa-disastri-provocati-dalluomo
Siccità nel Corno d’Africa, alluvioni in Sudan e nell’Africa occidentale. Sono molte e variegate le catastrofi naturali a cui stiamo assistendo in Africa e le conseguenze, umane e materiali, sono molto gravi. Ma è facile dare la colpa al cambiamento climatico. Se la natura fa così tanti morti, la causa è locale e molto umana.
Alluvione nel Sud Sudan
Continuano ad arrivare dall’Africa notizie di disastri naturali dalle conseguenze catastrofiche: milioni di sfollati, migliaia di vittime, incalcolabili danni materiali e la carestia che minaccia di abbattersi su un numero crescente di persone ormai stremate da malnutrizione, disagi e malattie.
Nel Corno d’Africa è la siccità a mettere in difficoltà 21 milioni di persone. La situazione è grave soprattutto in Somalia e in Etiopia. A causa di tre stagioni delle piogge con scarsissime precipitazioni, in Somalia 7,1 milioni di persone sono in stato di insicurezza alimentare acuta, 1,5 milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione acuta, un quarto dei quali in condizioni avanzate di debilitazione che fanno temere per la loro vita. Gli sfollati sono 750mila. In alcune regioni la carestia sta già decimando la popolazione. Non si prevedono miglioramenti almeno fino al marzo del 2023, sperando per allora in una stagione delle piogge finalmente regolare. In Etiopia, nel sud, quasi otto milioni di persone patiscono livelli critici di denutrizione in seguito a un lunghissimo periodo di siccità. Se anche quest’anno le piogge, per la quinta stagione, saranno scarse o assenti, il numero potrebbe più che raddoppiare. Come in Somalia, gran parte della popolazione rurale è dedita alla pastorizia. Si stima che finora siano morti 3,5 milioni di capi di bestiame e che altri 25 milioni siano a rischio. In una delle regioni più colpite, il Somali, quasi 300mila persone hanno lasciato le loro residenze abituali: in prevalenza donne e bambini che si sono diretti verso i centri urbani, in cerca di assistenza, mentre gli uomini sono rimasti ad accudire quel che resta del bestiame.
Se nel Corno d’Africa la siccità uccide, in due paesi confinanti con l’Etiopia – il Sudan e il Sudan del Sud – la gente muore a causa delle piogge torrenziali. In Sudan da quattro anni la stagione delle piogge porta alluvioni e fame. Quest’anno la situazione è diventata critica a partire da maggio. A settembre il governo ha dichiarato lo stato di emergenza alluvioni in sei stati e ha rimandato l’inizio dell’anno scolastico perché centinaia di scuole sono state danneggiate dalle acque. L’emergenza è stata poi estesa a sei altri Stati (sul totale di 18). Sono già morte più di 100 persone, decine di migliaia di abitazioni sono state distrutte dalle inondazioni, interi villaggi sono stati sommersi e gli abitanti hanno perso tutto. Quasi 12 milioni di persone, oltre un terzo della popolazione, soffrono di insicurezza alimentare acuta. Nel Sudan del Sud le piogge e le alluvioni finora hanno colpito oltre un milione di persone, un decimo degli abitanti, in 29 distretti. I livelli crescenti delle acque fanno temere che alcune dighe non reggano alla pressione. Decine di migliaia di persone hanno trovato rifugio in chiese e scuole. A peggiorare la crisi contribuisce il fatto che le acque hanno spazzato via molte strade, fatto crollare dei ponti e interrotto le comunicazioni. L’emergenza maggiore per le forti piogge si registra in Nigeria dove finora più di 500 persone sono morte e oltre 1.500 sono state ferite a causa delle alluvioni che interessano 31 dei 36 Stati della federazione. 1,4 milioni di nigeriani sono sfollati, costretti a lasciare casa e beni. Le inondazioni sono causate dalle piogge intense cadute a partire da fine luglio e, di recente, dalla decisione di aprire alcune dighe in Nigeria e una diga di grosse dimensioni nel vicino Camerun. Le autorità hanno informato gli stati del centro e del sud del paese che si prevedono altre inondazioni nelle prossime settimane.
Ormai da anni il verificarsi di questi disastri naturali, soprattutto in Africa, viene spiegato con il global warming, il cambiamento climatico. Gli effetti della pandemia prima e adesso della guerra in Ucraina aggravano le crisi, si dice. Ma in Nigeria e in altri Stati africani tutti gli anni, da sempre, durante la stagione delle piogge si verificano alluvioni; e tutti gli anni in Somalia e altrove la stagione secca mette a dura prova l’esistenza di chi ancora pratica economie di sussistenza. Sempre si contano vittime e danni materiali che non fanno notizia – si sa, succede ogni anno – se non quando, di tanto in tanto, le piogge cadono più forti, il monsone risalendo le coste orientali del continente scatena uragani, la stagione secca si prolunga più del solito. Allora si contano quantità eccezionali di morti e danni e il mondo ne parla. L’alluvione di quest’anno, in Nigeria, è la peggiore degli ultimi dieci anni. Durante quella del 2012 erano morte quasi 500 persone, gli sfollati erano stati circa 600mila. In Somalia si teme che la siccità attuale abbia effetti disastrosi come quella del 2010 e 2012 che ha ucciso 260mila persone. Andando a ritroso nel tempo, nei secoli, si ha riscontro di periodiche crisi umanitarie altrettanto e molto più drammatiche.
Un rapporto Onu appena pubblicato spiega che l’assenza di sistemi di allarme rapido aumenta anche di otto volte il numero delle vittime di calamità naturali. L’Africa risulta essere il continente con meno sistemi di allarme rapido. Molti paesi africani inoltre non solo sono privi di tali sistemi, ma non dispongono di piani di evacuazione, di intervento tempestivo. Peggio ancora, non attuano opere di contenimento dei danni causati dagli eventi naturali avversi: barriere antiallagamento, argini, casse di espansione dei corsi d’acqua, progetti anti erosione per limitare le frane, sistemi di recupero e raccolta delle acque piovane, piani di riforestazione, progetti idrici, trivellazioni…
In assenza di prevenzione e azione da parte dei governi e delle amministrazioni, ha ragione chi definisce gran parte dei disastri che si abbattono sugli abitanti del continente africano “man-made disasters”, disastri provocati dall’uomo, non dalla natura.
Etiopia, Somalia, Sudan del Sud, Sudan, Nigeria, i paesi africani oggi più colpiti da calamità naturali: i primi tre sono teatro di guerre tra etnie e clan per il controllo dello Stato; conflittualità etnica e religiosa, violenza incontrollata, insicurezza diffusa devastano Sudan e Nigeria. Attribuire a global warming, Covid e guerra in Ucraina la causa delle crisi umanitarie in atto in quei paesi non fa che peggiorare le prospettive: quando non si individua la causa di un problema, risolverlo è impossibile.
Kenya, niente pioggia da 3 anni: strage di animali (solo nel 2022 morti oltre 2,5 milioni di esemplari)
Vittorio Sabadin
19 novembre 2022
https://www.ilmessaggero.it/animali/kenya_pioggia_animali_morti_cosa_succede-7061827.html
Il Kenya è un grande cimitero di animali morti di sete e di fame, a causa di una siccità senza precedenti che dura da tre anni. La savana dove pascolavano elefanti, gnu, zebre e giraffe è macchiata dai loro scheletri, ammucchiati intorno a quelle che erano state le ultime pozze d’acqua. Nessuno crederebbe che la situazione sia tanto grave se il fotografo Charlie Hamilton James non l’avesse documentata, con immagini terribili e crudeli, visitando i parchi nazionali di Amboseli e Tsvao. Una volta i turisti ci andavano per fotografare gli animali vivi nell’ambiente che per millenni era stato il loro confortevole habitat.
Ora la terra è riarsa e polverosa. Non c’è più acqua da bere, ma soprattutto non cresce più nessun vegetale e manca dunque anche il cibo. Gli animali erbivori muoiono per primi, seguiti da quelli che prima mangiavano la loro carne.
PROLIFERAZIONE SELVAGGIA
La colpa è dell’uomo, come sempre. I mutamenti climatici c’entrano solo in parte: la siccità negli ultimi mesi ha colpito duramente tutto il Corno d’Africa, ma in Kenya la situazione è stata resa ancora più grave dal proliferare degli animali da allevamento. Buoi e mucche hanno divorato tutta l’erba che ancora era riuscita a crescere nonostante le scarse precipitazioni e non hanno lasciato nulla ai bufali, alle gazzelle e agli altri ruminanti selvatici. Si stima che solo quest’anno siano morti 2,5 milioni di capi di bestiame e i loro scheletri sono abbandonati uno sull’altro nella savana riarsa.
Hamilton James, un fotografo naturalista che ha lavorato con il leggendario David Attenborough, ha documentato la strage per la National Geographic Society britannica e ha raccontato al Daily Mail quello che ha visto: «C’è una massiccia siccità, gli animali avevano appena abbastanza acqua da bere, ma ora non c’è niente da mangiare. Sono tre anni che va avanti così. Il terreno è disseminato di corpi, ogni 25 metri c’è un’altra carcassa».
I Masai che prima avevano mandrie di centinaia di bovini ora hanno poche decine di capi. I maschi adulti devono mantenere famiglie quasi sempre molto numerose e non sanno più come fare. Gli agricoltori vendono la loro ormai inutile terra, ma i soldi incassati finiranno presto. I Masai hanno raccontato che fino a poco tempo fa si occupavano anche della fauna selvatica, nutrendola con fieno, ma ora non riescono più a farlo. Dicono che la colpa è del clima che è cambiato, ma anche del sovrappopolamento di bestiame da allevamento. Negli ultimi 30 anni il numero di capi di Bos taurus introdotti nelle riserve è aumentato del 1.100 % e consistenti porzioni di foresta sono state disboscate per creare pascoli. La terra è desertificata ed esausta, e i periodi di siccità hanno conseguenze sempre più gravi, mentre un tempo venivano superate con danni sopportabili.
IMPRESA DISPERATA
«I Masai capiscono perché questo sta accadendo ha detto ancora Hamilton James -. È la loro terra, sanno che è stremata. Sono un popolo legato al bestiame, ma sono consapevoli che ce n’è troppo».
Il governo ha invitato a fornire agli animali selvatici sale da leccare e acqua, ma è un’impresa disperata: un elefante ne beve più di 60 litri al giorno e non c’è modo di portarne così tanta alle mandrie superstiti. È l’intero Corno d’Africa, che oltre al Kenya comprende anche la Somalia e l’Etiopia, a soffrire per la mancanza di precipitazioni, la più grave registrata nell’area da 40 anni. Almeno 36 milioni di persone non hanno abbastanza cibo a causa dei raccolti perduti e le previsioni non tendono all’ottimismo: dal 2020 la stagione delle piogge che va da ottobre a dicembre ha costantemente registrato precipitazioni inferiori, e la durata e la gravità della siccità hanno superato quelle dei già terribili 2010-2011 e 2016-2017. Nel luglio scorso si stimava che 19,4 milioni di persone fossero colpite dalla mancanza d’acqua. In ottobre sono quasi raddoppiate: 24,1 milioni in Etiopia, 7,8 in Somalia e 4,2 in Kenya. La pioggia che doveva fermarsi sull’Africa se n’è andata quasi tutta nei posti sbagliati, come Sidney in Australia, dove ne sono caduti 2,2 metri da gennaio, un record. Il mondo non è più quello di prima, e dovremo abituarci.
La siccità nel Corno d’Africa vista dallo spazio
25/07/2011
https://www.esa.int/Space_in_Member_States/Italy/La_siccita_nel_Corno_d_Africa_vista_dallo_spazio
La siccità in Somalia, Kenya, Etiopia e Gibuti sta spingendo migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni, per sfuggire ad una generale situazione d’emergenza visibile anche dallo spazio. Il satellite SMOS, infatti, mostra che il suolo è talmente arido da non poter essere coltivato.
La popolazione somala, già duramente provata dalla guerra, si è riversata nei paesi confinanti in cerca di aiuto: il campo profughi di Dadaab, in Kenya, vede arrivare ogni giorno oltre 1000 sfollati, per la maggior parte bambini, gravemente disidratati e denutriti.
Analizzando i dati raccolti dal satellite SMOS dell’ESA, progettato per misurare l’umidità del suolo e la salinità marina, il suolo somalo appare molto arido durante la principale stagione delle piogge di quest’anno, specialmente nella regione meridionale.
Normalmente il clima della Somalia è arido nella regione centrale e nel nord-est, mentre il nord-ovest e il sud ricevono sufficienti quantità di pioggia. Sebbene il clima non sia soggetto a particolari variazioni stagionali, data la prossimità all’equatore, le piogge che normalmente si verificano fra aprile e giugno sono di vitale importanza per l’agricoltura.
Quest’anno, invece, le piogge non sono state sufficienti per le coltivazioni. Secondo SMOS, infatti, il grado di umidità del suolo fra aprile e luglio risulta molto basso o addirittura nullo in alcune aree chiave.
«Le misurazioni effettuate da SMOS in tali aree sono probabilmente da due a quattro volte più accurate, rispetto a quelle ottenute da altri sensori o modelli satellitari», ha commentato Yann Kerr, primo ricercatore della missione SMOS in materia di umidità del suolo, presso il CESBIO, centro per lo studio della biosfera terrestre dallo spazio, sito a Tolosa, in Francia.
Ulteriori informazioni raccolte con vari strumenti negli ultimi 20 anni rivelano la fase iniziale degli eventi che hanno portato all’emergenza di quest’anno nel Corno d’Africa: negli ultimi mesi del 2010 l’umidità del suolo era inferiore alla media in varie aree del Kenya, dell’Etiopia, del Gibuti e della Somalia.
I raccolti persi, la moria del bestiame e la carestia, che sta affliggendo milioni di persone, sono le devastanti conseguenze di quella che le organizzazioni umanitarie di tutto il mondo definiscono la peggiore siccità degli ultimi decenni.
Clima e inquinamento, l’Africa non è una vittima
Anna Bono
22 novembre 2022
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Alla Conferenza Internazionale sul clima, chiusasi domenica in Egitto, ancora una volta al centro dei negoziati c’è stata l’entità del risarcimento che i paesi ricchi (considerati gli inquinatori) devono pagare ai paesi poveri, che ne sarebbero le vittime. Ma la realtà dell’Africa dimostra che i primi a danneggiare l’ambiente sono proprio i governi africani. Come dimostrano il Congo, l’Uganda, il Tanzania…
– VIDEO: IL SOTTOSVILUPPO, NON LO SVILUPPO, DANNEGGIA L’AMBIENTE, di Riccardo Cascioli
– COP27, L’EUROPA FIRMA LE CAMBIALI PER IL FUTURO, di Luca Volontè
L’origine antropica del riscaldamento globale è una congettura priva di riscontri scientifici, sostengono migliaia di scienziati in tutto il mondo. Ma l’IPCC, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico istituito dalle Nazioni Unite nel 1998, non li ascolta. Da 30 anni continua a diffondere la teoria di una catastrofe imminente, di un pianeta destinato a diventare arido e privo di vita se non saranno presi provvedimenti contro chi ne è responsabile e organizza conferenze mondiali intese a trovare il modo per impedire che accada.
In sintesi la teoria è che il pianeta si surriscalda a causa delle attività umane. Ma non di tutte. Sono solo il modo di produzione e lo stile di vita occidentali, a partire dall’industrializzazione e dall’affermazione del modo di produzione capitalistico, a produrre quantità insostenibili dei gas serra che, secondo l’IPCC, minacciano la vita sulla Terra e rendono più frequenti e intensi i fenomeni naturali estremi.
Quindi i popoli occidentali devono ridurre drasticamente le emissioni di CO2, costi quel che costi in termini economici e sociali. Tocca a loro inoltre intervenire in favore delle popolazioni più danneggiate dai fenomeni naturali estremi che sono anche le più povere, intervento tanto più doveroso in quanto sono incolpevoli essendo minima la percentuale di CO2 che producono.
I paesi poveri devono essere risarciti dei danni economici causati da fenomeni naturali quali inondazioni, siccità, uragani. Poi si deve finanziare la loro transizione energetica, per metterli in grado di disporre di energie rinnovabili e comunque meno inquinanti di quelle in uso attualmente. Infine bisogna sostenere i costi del loro adattamento ai cambiamenti climatici affinché possano anticipare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici prevenendo o almeno riducendo con opportune opere infrastrutturali i danni che possono causare. Si tratta di impegni finanziari enormi. Nel 2009 si era calcolato che occorressero 100 miliardi di dollari all’anno, ma il più recente rapporto del Programma Onu per l’ambiente ha riveduto le stime portando a 340 miliardi l’anno i fondi necessari.
Su chi deve fornire tutti quei miliardi si è discusso, fino a rischiare una rottura, alla Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici svoltasi a Sharm-el-Sheikh dal 6 al 19 novembre, protratta di un giorno proprio per tentare di trovare un accordo. La crisi si è aperta quando l’Unione Europea una volta tanto si è impuntata, rifiutando il programma proposto dal G77, l’organizzazione intergovernativa dell’Onu formata da 134 paesi in gran parte in via di sviluppo, che accollava gli oneri ai paesi “colpevoli”, quelli occidentali, e includeva tra i beneficiari tutti i paesi in via di sviluppo.
Minacciando di abbandonare la Conferenza, l’UE ha ottenuto che i fondi siano destinati solo ai paesi più vulnerabili e che venga ampliata la base dei donatori. Adesso una commissione di esperti elaborerà un progetto che andrà discusso il prossimo anno alla Cop28 che si terrà a Dubai. Tra i donatori dovrebbe figurare anche la Cina che finora non ha contribuito pur sostenendo le richieste del G77 e nonostante sia il paese che produce più gas serra: in fin dei conti è sempre colpa dell’Occidente e del suo modello di sviluppo imposto al resto del mondo.
Durante la discussione si sono distinti per recriminazioni e rivendicazioni i paesi africani. Già avevano trattato il tema del cambiamento climatico in un vertice di tre giorni svoltosi in preparazione alla Cop27 a ottobre, a Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, e conclusosi con un documento votato all’unanimità in cui si chiedeva ai paesi ricchi di fare di più per aiutare i paesi in via di sviluppo a combattere il global warming.
A Sharm el-Sheikh i paesi africani hanno rivendicato il loro diritto in quanto poveri e tutti particolarmente vulnerabili a godere dei finanziamenti, ma anche quello di continuare a usare le riserve di gas naturale e petrolio a discrezione, esentandoli dai tagli previsti dagli accordi per la riduzione delle emissioni di CO2.
L’Africa è un caso speciale, afferma a sostegno della posizione dei rappresentanti africani il presidente della Banca africana di sviluppo Akinwumi Adeasina. È speciale davvero, replica Keamou Marcel Soropogui, studioso guineano di ambiente e sviluppo sostenibile che attualmente lavora presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ma lo è per livelli di corruzione e disonestà politica. L’Africa dovrebbe spendere bene per il clima quel che riceve prima di chiedere di più, spiega: “I paesi africani hanno già ricevuto circa 103 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2020. Non sono sufficienti, tuttavia si potevano ottenere dei risultati se fossero stati spesi oculatamente”.
Ma il problema non sono solo le emissioni di CO2. Un progetto di sfruttamento delle riserve di petrolio e gas naturale che interessa Botswana e Namibia minaccia il Delta dell’Okawango, una riserva naturale unica al mondo per biodiversità, tanto da essere stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. L’Uganda e il Tanzania intendono costruire un oleodotto, il più lungo del mondo, per portare all’oceano Indiano il petrolio che sarà estratto nel lago Alberto (vedi cartina). L’impatto sull’ambiente e sulla biodiversità sarà minimo, promettono i governi, ma l’oleodotto attraverserà aree protette ed ecosistemi fragili che ne saranno sconvolti. La Repubblica democratica del Congo ha da poco autorizzato lo sfruttamento di 30 giacimenti di petrolio e gas naturale nella seconda più grande foresta pluviale del mondo. Sempre in Congo, un progetto per l’estrazione del petrolio minaccia un altro patrimonio dell’umanità: il parco nazionale dei Virunga che ospita gli ultimi gorilla di montagna.
Alberto Pento
Non va poi dimenticato che una parte rilevante del petrolio e del gas consumato al mondo si estrae nei paesi del cosidetto terzo mondo e in via di sviluppo dei continenti asiatico, africano e americano (del sud) e che buona parte i proventi/profitti ricavati dall’estrazione e dell’uso da parte dei cosidetti paesi ricchi e sviluppati va già a beneficio di questi paesi produttori di combustibili fossili.
Anche l’Africa rovina l’ambiente, distruggendo le foreste
Anna Bono
30-11-2022
https://lanuovabq.it/it/anche-lafrica-rovina-lambiente-distruggendo-le-foreste#.Y4adOPNEf2w.facebook
Il dibattito internazionale sul clima e l’ambiente si svolge soprattutto nei termini della “giustizia climatica”. Quindi si chiede ai Paesi ricchi di risarcire quelli poveri. Ma se il principio dovesse essere applicato equamente a tutti, anche l’Africa sarebbe sul banco degli imputati. Dopo la fine del colonialismo ha distrutto le sue foreste.
Antony Blinken in visita in Kenya
“Loss and damage”, perdite e danni. Giustizia climatica vuole che i paesi responsabili del riscaldamento globale, perché da decenni le loro economie avanzate producono la maggior parte dei gas serra, risarciscano il resto del mondo, in particolare i paesi che subiscono i danni maggiori anche se producono quantità minime di CO2. La priorità va al continente africano, il più “innocente”, con solo il 3% delle emissioni, eppure il più danneggiato, con perdite annuali pari al 15% del Pil. Lo ha riaffermato la Cop27, la conferenza sul clima conclusasi il 19 novembre scorso a Sharm el Sheikh, portando da 100 a 340 miliardi il fondo annuale necessario.
Ma se si accetta l’argomento della “giustizia climatica” in base al principio “chi rompe paga”, allora però si deve applicare a tutto e a tutti. Deve valere anche ad esempio per l’Africa stessa che, se è innocente e va risarcita per gli effetti umani negativi sul clima dal momento che produce molto meno CO2 di altri continenti, posto che abbia ragione chi sostiene la causa antropica del riscaldamento globale, invece non lo è affatto quando si considera l’impatto umano devastante sull’ambiente naturale: impatto che, a differenza del global warming antropico, non è una congettura, ma un insieme di fatti tangibili, documentati e misurabili. Da decenni gli africani fanno scempio di fauna e flora selvatiche, patrimonio dell’umanità, incuranti di portare a rischio di estinzione un numero crescente di specie, e inquinano e devastano gli habitat naturali producendo danni sempre più spesso irreparabili alla biodiversità. Nei primi 30 anni successivi alla fine della colonizzazione europea l’Africa ha abbattuto il 55% delle sue foreste e ancora la distruzione continua, in alcuni paesi a ritmo accelerato. La Costa d’Avorio negli ultimi 50 anni ha perso quasi tutte le sue foreste. In Etiopia 60 anni fa il 30% del territorio nazionale era costituito da foreste e adesso la superficie boschiva è ridotta all’1%. La Repubblica democratica del Congo negli ultimi cinque anni ha eliminato in media un milione di ettari di foresta all’anno. Il Rwanda solo dal 2001 a oggi ha distrutto l’8,2% della sua superficie arborea. La Nigeria ha già più che dimezzato le sue aree boschive. L’elenco potrebbe continuare.
Mancanza di controlli e corruzione sono i principali motivi per cui il patrimonio forestale di cui i popoli africani dovrebbero prendersi cura viene irresponsabilmente sprecato: per far posto all’agricoltura, anche se i terreni deforestati sono inadatti alla coltivazione, in pochi anni molti inaridiscono e non si rigenerano, per ricavare legna da ardere, perché decine di milioni di famiglie persino nei paesi produttori di petrolio come la Nigeria non si possono permettere altre fonti energetiche e non hanno alternativa se voglio nutrirsi e scaldarsi, e per profitto, per ricavare legname da vendere, soprattutto sul mercato internazionale. Le leggi che limitano l’abbattimento, quando esistono, sono ignorate dai cittadini e dai funzionari stessi che dovrebbero farle rispettare. È fiorente ovunque un lucroso mercato nero di legname da costruzione e pregiato. È notizia recente che negli ultimi mesi in Kenya, prima che il governo intervenisse a fermare il traffico, sono stati addirittura venduti, ciascuno per poche centinaia di dollari e su licenza governativa, centinaia di baobab anche millenari, acquistati da un miliardario dell’est europeo che li ha sradicati e portati in Georgia. Ha suscitato scalpore, sempre in Kenya nei giorni scorsi, la notizia che il governatore della capitale Nairobi, per farla diventare di nuovo una “città verde” dopo decenni di sconsiderato abbattimento di alberi, ha deciso di importare delle palme dalla Malesia. Lo scandalo è che in Kenya crescono diverse varietà di palme.
Gli alberi si tagliano in tutto il mondo, ma si possono ripiantare. Tardivamente si è deciso di farlo anche in Africa. L’Etiopia, ad esempio, nel 2019 ha lanciato una campagna per piantare 20 miliardi di alberi entro la fine del 2022 e il 19 novembre scorso ha annunciato di aver raggiunto e superato l’obiettivo. Il progetto era iniziato nel 2019 con la messa a dimora di oltre 350 milioni di alberi in un sol giorno, a detta del governo. Ma un conto è piantare, un conto è far crescere. Dopo un anno già oltre il 20% degli alberi erano morti, principalmente per incuria e per essere stati piantati in terreni inadatti. Più realisticamente, il vicino Kenya vanta di averne piantati 51 milioni, su iniziativa del premio Nobel per la pace 2004 Wangari Maathai.
Il progetto più ambizioso è la Grande muraglia verde, lanciato dall’Unione Africana nel 2007 per creare una fascia verde lunga 7.800 chilometri e larga 15 per un totale di 100 milioni di ettari che dovrebbe attraversare tutto il continente dal Senegal a Gibuti. Ma, mentre per i cambiamenti climatici si chiede di rimediare ai paesi ritenuti responsabili, nel caso dei danni ambientali di portata planetaria provocati dalla deforestazione di cui sono responsabili i paesi africani l’onere ricade quasi del tutto su stati e popolazioni che non ne hanno colpa. A finanziare la Grande muraglia verde, così come altre iniziative “green” in Africa, sono infatti in gran parte dei donatori internazionali tra cui figurano la Banca Mondiale, la Banca europea di investimenti, la Commissione Europea.
Finora è stato realizzato solo il 4% della Grande muraglia verde, al costo di decine di miliardi di dollari. Per accelerare i tempi, vista la lentezza con cui procede la sua realizzazione, il quarto One Planet Summit, un vertice internazionale per fare il punto sullo stato dei lavori, svoltosi a Parigi nel 2021, ha deciso un nuovo finanziamento: il Great Green Wall Accelerator, dell’importo iniziale di 14 miliardi di dollari, portati poi a 19. Ma per terminare il progetto, entro la data fissata del 2030, serviranno ancora almeno 33 miliardi.
Ambiente
L’Africa invasa dalla plastica
Sharon Lerner, The Intercept, Stati Uniti
2 dicembre 2022
https://www.internazionale.it/notizie/sharon-lerner/2022/12/02/africa-plastica
Rosemary Nyambura trascorre i suoi fine settimana con la zia Miriam a raccogliere plastica nella discarica di Dandora a Nairobi, la capitale del Kenya. Il lavoro è lungo, e anche rischioso, perché in mezzo alle bottiglie che poi rivenderanno ad altri commercianti ci sono siringhe usate, vetri rotti, escrementi, pezzi di custodie per cellulari, telecomandi, suole di scarpe, giocattoli, sacchetti, conchiglie e innumerevoli frammenti di involucri, indistinguibili tra loro. Rosemary, 11 anni, spera che i suoi sforzi un giorno saranno ripagati. Quasi tutti i suoi sei cugini, con cui vive da quando la madre è morta, hanno dovuto lasciare la scuola superiore perché la zia non poteva permettersi di pagare la retta. Rosemary giura che, se riuscirà a frequentare le elementari, le medie, le superiori e infine la facoltà di medicina, tornerà a Dandora. “Qui le persone si ammalano spesso”, mi ha detto dalla cima di un mucchio di spazzatura maleodorante. “Se diventerò medica, li aiuterò gratis”. Rosemary dovrà lavorare a lungo per guadagnare la somma necessaria a pagare le rette scolastiche. Nella discarica di Dandora, che occupa più di dodici ettari nella parte est di Nairobi, tutto quello che vale qualcosa diventa oggetto di contesa. Gruppi di imprenditori locali controllano chi raccoglie e rivende i rifiuti, e a volte fanno perfino pagare una tassa per accedere ad alcune aree. Uccelli, mucche e capre si sono ricavate i loro spazi per razzolare e pascolare in cima alle collinette di spazzatura. I raccoglitori di rifiuti litigano tra loro per i pezzi migliori. Al centro degli scontri più feroci ci sono i pasti scartati dei voli di linea: chi la spunta divora fino all’ultima briciola di vecchi panini rinsecchiti, carne congelata e pasta molliccia, perfino il contenuto della minuscola vaschetta di burro. Poi getta il contenitore di plastica in un mucchio.
Lungo il perimetro della discarica siedono i rivenditori di plastica usata, che acquistano bottiglie in polietilene tereftalato (pet) come quelle che Miriam raccoglie sette giorni su sette, per meno di cinque centesimi di dollaro al chilo (un po’ di più delle scatole di cartone, ma molto meno delle lattine di metallo). Possono volerci ore, se non giorni, per raccogliere un chilo di bottiglie di plastica. Le buste dove vengono messe, chiamate diblas, sono così grandi che i bambini non riescono a trasportarle.
L’organizzazione Dandora HipHop City ha trovato un modo per permettere ai bambini che vivono vicino alla discarica – e non hanno la forza o il tempo di raccogliere un intero chilo di plastica – di ricevere un aiuto in cambio dei rifiuti. Alla “banca” dell’organizzazione, un negozietto a un isolato dalla discarica, i bambini guadagnano dei “punti” portando anche solo una bottiglia, punti che poi possono scambiare con olio da cucina, farina, verdura e altre cose da mangiare. L’organizzazione, fondata da un cantante hip-hop cresciuto nella zona, offre anche dei corsi. In un edificio ai margini della discarica, con le pareti decorate a mano e ammobiliato con pezzi recuperati dalla spazzatura, i bambini imparano a comporre musica su vecchi computer o a scrivere, giocano tra loro o semplicemente passano del tempo insieme.
La piccola somma che l’organizzazione ottiene in cambio della plastica raccolta non basta a coprire i costi dei generi alimentari distribuiti, quindi Dandora HipHop City ha bisogno delle donazioni di dipendenti e amici. Il gruppo ha cercato di ottenere una sovvenzione dalla Coca-Cola, che sulla carta è lo sponsor perfetto. L’Africa è “uno dei principali motori di crescita per il futuro dell’azienda”, ha affermato recentemente James Quincey, l’amministratore delegato della multinazionale da 200 miliardi di dollari. Inoltre i bambini di Dandora, che soffrono la fame, l’abbandono e una serie di problemi di salute legati alla discarica, passano il tempo a raccogliere molte delle sue bottiglie, invece di andare a scuola.
Un frigorifero pieno di bottiglie
Nel settembre del 2018 la Coca-Cola ha mandato una delegazione a Dandora per incontrare i ragazzi. Dopo l’incontro Charles Lukania, che organizza i corsi a Dandora HipHop City, ha inviato una proposta e un preventivo di spesa ad alcuni responsabili del marketing che aveva conosciuto in quell’occasione, mettendo bene in evidenza che la multinazionale avrebbe potuto sostenere il progetto della banca della plastica. Ma la visita e la proposta non hanno dato i frutti sperati. Invece, dice Lukania, “si sono offerti di mandarci un frigorifero pieno di bottigliette di Coca-Cola da vendere ai bambini”. La maggior parte di loro, però, non può permettersele. “I pochi soldi che hanno gli servono per mangiare”, spiega Lukania. Poche settimane dopo la multinazionale ha collaborato con Dandora HipHop City ad alcune giornate di raccolta dei rifiuti, ma senza dare un sostegno finanziario diretto. Ha contributo con i suoi prodotti: i volontari hanno ricevuto delle bibite per dissetarsi dopo le ore passate a raccogliere rifiuti sotto il sole cocente. “Ed erano in bottiglie di plastica”, fa notare Lukania.
Camilla Osborne, responsabile della comunicazione della Coca-Cola per l’Africa meridionale e orientale, precisa in un’email che “il nostro partner per l’imbottigliamento, Coca-Cola Beverages Africa in Kenya, ha fornito bevande per rinfrescarsi e bidoni per il riciclo” a Dandora HipHop City. Secondo Osborne, “l’azienda e i suoi partner in Kenya non sono a conoscenza di richieste di donazioni”. E aggiunge: “Nessuna organizzazione da sola può risolvere il problema della plastica nel mondo”.
Africa, l’inquinamento è il secondo fattore di rischio di morte
di Anna Spena, Paolo Manzo
09 gennaio 2023
Nel 2019 l’inquinamento atmosferico ha contribuito a causare 1,1 milioni di decessi. I neonati e i bambini sotto i cinque anni sono la fascia d’età più a rischio: circa 236mila neonati muoiono nel primo mese di vita a causa dell’esposizione all’inquinamento. In Egitto, Ghana, Repubblica Democratica del Congo, Kenya e Sudafrica, il costo annuale combinato dei danni alla salute dovuti all’esposizione al PM2,5, particelle fine ambientali, è di oltre 5,4 miliardi di dollari
In Africa, l’inquinamento atmosferico è il secondo fattore di rischio di morte dopo la malnutrizione. I dati del rapporto “State of Global Air Quality and Health Effects in Africa”, sono drammatici: nel 2019 l’inquinamento atmosferico infatti ha contribuito a causare 1,1 milioni di decessi, il 63% dei quali legati all’esposizione all’inquinamento atmosferico domestico. Gli State of Global Air sono prodotti annualmente dall’Health Effects Institute e dal progetto Global Burden of Disease (GBD) dell’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME). I rapporti sono stati lanciati per la prima volta cinque anni fa, e in cinque anni l’inquinamento atmosferico è passato dal 5° al 4° fattore di rischio di morte a livello globale, continuando a superare l’impatto di altri fattori di rischio riconosciuti, come le malattie croniche tra cui obesità e colesterolo, e la malnutrizione.
I 3 tipi di inquinamento atmosferico
Sono tre i tipi di inquinamento atmosferico noti per il loro impatto sulla salute umana: l’inquinamento ambientale (outdoor) da polveri sottili, l’ozono troposferico ambientale e l’inquinamento atmosferico domestico. Il focus sul continente africano ha rilevato che l’Africa ospita cinque (Niger, Nigeria, Egitto, Mauritania e Camerun) dei dieci Paesi più inquinati in termini di particelle fine ambientali, le PM2,5. Le PM2,5 sono particelle più piccole dei globuli rossi umani, formate da una complessa miscela di particelle solide di sostanze organiche e minerali sospese nell’aria. Nella maggior parte dei Paesi africani, queste particelle sottili provengono dalla combustione di legna per cucinare, dal trasporto su strada, soprattutto attraverso veicoli diesel e dall’industria, quindi dall’inquinamento domestico. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’esposizione a queste polveri sottili, anche a basse concentrazioni, può causare incidenti cardiovascolari, malattie respiratorie e il cancro ai polmoni.
L’impatto sui bambini
I neonati e i bambini sotto i cinque anni sono la fascia d’età più a rischio quando parliamo di inquinamento in Africa. Circa 236mila neonati muoiono nel primo mese di vita a causa dell’esposizione all’inquinamento atmosferico, di cui l’80% proviene dall’inquinamento atmosferico domestico. Nel 2019 il 14% di tutti i decessi al di sotto dei cinque anni in Africa era legato all’inquinamento atmosferico. Anche l’esposizione all’inquinamento atmosferico nel grembo materno è associata alla nascita prematura e la respirazione di aria inquinata durante i primi anni di vita può contribuire a infezioni mortali delle vie respiratorie inferiori.
L’inquinamento domestico
Nell’Africa subsahariana, si stima che il 75% della popolazione si affidi alla combustione di solidi come carbone, legna e sterco per cucinare, esponendo così oltre 800 milioni di persone ad alte concentrazioni di inquinanti nocivi in casa ogni giorno. L’esposizione all’inquinamento atmosferico derivante dall’uso domestico di combustibili solidi e fonti fossili si combina con i cambiamenti demografici e di altro tipo che influenzano la salute di base della popolazione. L’impatto dell’inquinamento atmosferico sull’aspettativa di vita è maggiore nelle aree meno sviluppate, dove molte persone subiscono un doppio carico a causa dell’elevato particolato fine ambientale e dell’esposizione all’inquinamento atmosferico domestico.
Il futuro del continente
Lo sviluppo economico, l’accesso all’energia e le politiche pubbliche influenzeranno la traiettoria futura dell’inquinamento atmosferico e il suo impatto in tutta l’Africa. L’Africa è in rapida urbanizzazione, avrà 13 megalopoli (città con più di 10 milioni di abitanti) entro il 2100. Molti Paesi del continente si stanno anche rapidamente industrializzando. “Lo sviluppo e la crescita economica hanno il potenziale per migliorare la qualità della vita di molti milioni di persone”, sottolinea il rapporto. “Ma se si lascia che le fonti di inquinamento atmosferico domestiche, industriali e di trasporto crescono senza controllo e senza un’adeguata regolamentazione ambientale, questo sviluppo ha anche il potenziale di esacerbare ulteriormente l’inquinamento atmosferico. È noto che le disuguaglianze nello sviluppo socioeconomico contribuiscono alle disparità di esposizione e di salute. L’accesso a forme di energia pulita sarà fondamentale per determinare il futuro della qualità dell’aria in Africa e per migliorare la salute pubblica”.
L’aspettativa di vita e la spesa sanitaria
In molti Paesi africani si registra un’elevata perdita di aspettativa di vita dovuta principalmente all’esposizione all’inquinamento atmosferico. Ad esempio, sia in Niger che in Somalia, si stima che l’esposizione all’inquinamento atmosferico contribuisca alla perdita di oltre 3 anni. Insieme al tributo umano degli impatti sulla salute a causa della respirazione di aria inquinata, il tributo economico di questo inquinamento è sostanziale, con un costo annuale dei danni alla salute dovuti a malattie connesse all’inquinamento atmosferico che ammonta in media al 6,5% del PIL in tutta l’Africa. In Egitto, Ghana, Repubblica Democratica del Congo, Kenya e Sudafrica, i cinque Paesi su cui si focalizza il rapporto, il costo annuale combinato dei danni alla salute dovuti all’esposizione al PM2,5 è di oltre 5,4 miliardi di dollari.
Egitto
In tutto il continente, l’Egitto ha registrato il maggior numero di decessi dovuti al PM2,5 ambientale, le cosiddette polveri sottili, ben 90.600 nel 2019, quasi tutti concentrati al Cairo. Proprio per ovviare a questo problema e migliorare la qualità dell’aria nella sua capitale e mettere la popolazione in condizione di affrontare meglio gli elevati livelli di inquinamento, nel 2020 l’Egitto ha lanciato il Progetto di gestione dell’inquinamento atmosferico e dei cambiamenti climatici della Grande Cairo, come viene chiamata la città includendo le periferie. Uno sforzo che cerca di modernizzare il sistema di gestione sia della qualità dell’aria che dei rifiuti solidi e ridurre l’inquinamento derivante dalla loro combustione. Inoltre, negli ultimi due anni è cresciuto l’uso di autobus e veicoli elettrici nella capitale egiziana. Meno dell’1% dei decessi nei bambini sotto i cinque anni in Egitto è collegato all’inquinamento atmosferico domestico, mentre il 9,4% dei decessi in questa fascia di età è stato collegato all’esposizione al PM2,5 ambientale. Ciò riflette l’alto tasso di esposizione all’inquinamento ambientale da polveri sottili ma il basso tasso di esposizione all’inquinamento atmosferico domestico in Egitto rispetto, ad esempio, al Kenya. Da segnalare, infine, che il Paese non ha ancora introdotto standard nazionali di qualità dell’aria, pur essendo uno dei più popolosi.
Kenya
Il Kenya ha registrato il più alto tasso di decessi legati all’inquinamento atmosferico domestico, tra i cinque paesi analizzati dal rapporto, con 44 decessi per 100mila persone nel 2019. Tra i più colpiti i bambini, con l’11,8% dei decessi di quelli sotto i cinque anni collegato proprio a questa fattispecie. Il Kenya ha però registrato il miglioramento maggiore, con una diminuzione del 19% dei livelli medi di PM2,5 e, nel paese, la produzione di energia contribuisce oggi solo al 2% circa dei livelli totali di polveri sottili. Questo grazie a ben 23 politiche per l’energia pulita domestica, tra cui progetti innovativi per le stufe, l’energia solare e l’espansione elettrica sostenibile, portate avanti da molte ong presenti in loco tra cui Avsi, Cesvi, Weworld, Amref, Missioni don Bosco ed ActionAid. Il Kenya ha adottato strumenti legislativi contenenti standard di qualità dell’aria ma ha un inquinamento atmosferico domestico assai più elevato, pari all’87%. Le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che circa 19mila persone muoiono ogni anno in Kenya a causa dell’inquinamento atmosferico, con il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, l’Unep, che calcola che il 70% di queste vittime sia concentrato nella capitale Nairobi, dove le polveri sottili sono quasi 5 volte superiori a quelle considerate buone dall’Oms, ovvero pari a 22,6 µg/m3. Tra le principali fonti di inquinamento il traffico e l’uso di combustibili solidi come carbone e legna per cucinare.
Ghana
Nel 2019 il Ghana è stato il settimo Paese in Africa con il maggior numero di decessi legati al PM2,5, che hanno coinvolto soprattutto i bambini sotto i 5 anni d’età. Il Paese registra anche una forte esposizione all’inquinamento domestico (fino al 70%). Nel Paese africano oltre 600mila bambini in età scolare non sono ancora iscritti alla scuola primaria. I motivi spesso sono da ricercarsi in strutture scolastiche inadeguate, classi sovraffollate o nel livello di povertà in cui versano le famiglie, prive del reddito sufficiente per l’acquisto del materiale scolastico necessario. Il costo economico annuale dell’inquinamento atmosferico in Ghana è stimato in 2,5 miliardi di dollari, circa il 4,2% del prodotto interno lordo (Pil). In Ghana le concentrazioni annuali di inquinamento atmosferico sono 10 volte superiori alle linee guida dell’Oms sulla qualità dell’aria, causando migliaia di morti premature per malattie non trasmissibili come cardiopatia ischemica, ictus, broncopneumopatia cronica ostruttiva e cancro ai polmoni.
Sudafrica
Nel paese la produzione di energia contribuisce al 23% dei livelli di PM2,5 nell’ambiente, facendo delle polveri sottili un grave problema. Qui il numero di decessi dovuti a questa causa è stato di 25.800 nel 2019. Il Sudafrica, uno dei 12 maggiori inquinatori mondiali, genera circa l’80% della sua elettricità attraverso il carbone. La Banca Mondiale ha affermato che al paese sono stati concessi finanziamenti per 497 milioni di euro per la disattivazione di una delle sue più grandi centrali elettriche a carbone e convertirla in energia rinnovabile. Il problema è che il Sudafrica avrebbe bisogno di circa 500 miliardi di euro entro il 2050 per raggiungere la neutralità del carbonio. Sei le politiche per l’energia pulita domestica, tra cui l’espansione della rete energetica e gli investimenti nella distribuzione di energia. Molto però resta da fare se solo si pensa che due terzi dei comuni del paese forniscono acqua potabile non sicura ai propri residenti. E tre quarti dei comuni sudafricani scaricano acque reflue non trattate adeguatamente nei fiumi e negli oceani. Dei 144 comuni del Sudafrica che trattano l’acqua per l’approvvigionamento potabile di almeno 22 milioni di persone, ben 94 non soddisfano i requisiti limite microbiologici, secondo una ricerca pubblicata lo scorso 10 novembre sul quotidiano The Citizen. Se sull’acqua molto resta da fare, positivo invece che una recente sentenza della Corte Suprema abbia riconosciuto l’inquinamento atmosferico come una violazione dei diritti costituzionali, aprendo potenzialmente la strada a future azioni per migliorare la qualità dell’aria.
Repubblica Democratica del Congo
La Repubblica Democratica del Congo è uno dei 20 Paesi più popolosi al mondo. La popolazione è in fuga perenne da violenze e scontri armati, i civili sono esposti a pericoli costanti. Gli abusi sessuali su donne e ragazzine, i rapimenti, gli attacchi a scuole e ospedali sono solo alcune delle violenze perpetrate dai gruppi armati che si contendono il territorio e le sue ingenti risorse naturali, dai metalli preziosi agli idrocarburi. Quella della Repubblica democratica del Congo resta una delle crisi umanitarie più complesse e prolungate dell’Africa, con oltre 27 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria nel 2022. In tutto il Paese si contano oltre 5,6 milioni di sfollati interni, causati perlopiù da conflitti inter-etnici e scontri tra esercito regolare e le numerose sigle combattenti, almeno 130 nelle sole province orientali del Kivu. Circa un quarto degli sfollati (1,4 milioni) ha trovato riparo nel Sud Kivue nel Maniema. Eppure i conflitti che lacerano la RdC, un gigante grande quanto tutta l’Europa occidentale, risultano da sempre trascurati, tanto dai media quanto dalla comunità internazionale. è ricco di risorse naturali come il cobalto, un metallo strategico e critico utilizzato in molte applicazioni industriali e militari. Il Paese possiede l’80% delle riserve mondiali di cobalto. La Rdc è il terzo Paese aricano per decessi legati all’inquinamento atmosferico domestico. Il Paese ha la più alta esposizione all’inquinamento atmosferico domestico, il 93%, e il 90% della popolazione continua a fare affidamento sui combustibili solidi per cucinare. La tendenza è ampiamente coerente con i dati globali: dal 2010 i livelli di ozono sono aumentati in 12 dei 20 Paesi più popolosi del mondo. Paesi come la Nigeria, l’Etiopia e la Repubblica Democratica del Congo hanno registrato un forte aumento dei livelli di ozono nell’ultimo decennio. Repubblica Democratica del Congo hanno visto un forte aumento dei livelli di ozono nell’ultimo decennio. D’altra parte d’altro canto, l’Egitto ha registrato un modesto calo del 3% tra il 2010 e il 2019.
Cop27, le emissioni di CO2 paese per paese
Elena Comelli
di Gianluca Di Donfrancesco
https://lab24.ilsole24ore.com/cop27-dati-CO2-mondo/
Per limitare l’aumento delle temperature globali attorno a 1,5°, la soglia più sicura raccomandata dalla scienza e dall’Accordo di Parigi del 2015 per evitare gli effetti peggiori del climate change, le emissioni nette di gas serra dovrebbero scendere del 43% entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010.
Secondo gli scienziati Onu del clima, vanno invece verso un aumento del 10,6%. Sarà un punto centrale dei lavori della Cop27 di Sharm el-Sheik, tra il 6 e il 18 novembre. Vediamo con una serie di grafici una fotografia del trend di emissioni di CO2 nel mondo grazie ai dati del “CO2 emissions of all world countries, 2022 Report” della Commissione europea.
Emissioni CO2 per paese nel 2021
Dati espressi in tonnellate metriche di CO2 per anno (Fonte: CO2 emissions of all world countries, 2022 Report)
Nel 2021 le emissioni globali di CO2 sono rimbalzate e del 5,3% rispetto al 2020, restando appena dello 0,36% al di sotto dei livelli del 2019. Cina, Stati Uniti, Ue, India, Russia e Giappone sono le economie che emettono più CO2 al mondo. Insieme, rappresentano il 49,2% della popolazione mondiale, il 62,4% del Pil globale, il 66,4% del consumo di combustibili fossili e il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile. Tutti e sei hanno aumentato le emissioni di CO2 nel 2021 rispetto al 2020.
Le emissioni dell’Unione europea sono aumentate del 6,5% nel 2021, da un livello eccezionalmente basso nel 2020 a causa dei blocchi causati dalla pandemia di Coronavirus. Tuttavia, l’anno scorso le emissioni dell’UE sono diminuite del 5% rispetto al 2019. Ciò mette la Ue sulla strada per raggiungere il proprio obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro la fine di questo decennio.
La Cina è di gran lunga il Paese che ne produce di più: il 33% del totale nel 2021. Da sola, supera la somma delle quattro economie che la seguono: Stati Uniti (12,5%), Unione Europea (7,3%), India (7%) e Russia (5%). Pechino punta a raggiungere il picco di emissioni «prima del 2030»: significa che non smetterà di aumentarle per diversi anni ancora.
La classifica cambia radicalmente se si considerano le emissioni pro-capite, un criterio non troppo significativo, che inevitabilmente premia i Paesi più popolati. In questo caso, gli Stati Uniti superano la Cina.
La mappa delle emissioni
Quanta CO2 emette ogni paese, a scelta dal menu anche in base agli abitanti e alla ricchezza prodotta. Dati dal 1990 (Fonte: CO2 emissions of all world countries, 2022 Report)
Nel grafico qui sopra si può osservare, selezionando gli anni e tornando indietro nel tempo, l’evoluzione della mappa delle emissioni. Gli Stati, che erano nettamente i maggiori inquinatori al mondo negli anni Settanta, hanno visto il loro peso scendere, man mano che lo sviluppo economico della Cina cresceva, insieme al suo impatto sull’ambiente. Nel 1990, gli Usa producevano ancora il doppio della CO2 emessa dalla Cina. Il sorpasso è avvenuto solo nel 2005.
I Paesi emergenti, India in testa, sono molto attenti alla quantità di emissioni accumulate nella storia dalle varie economie. I pesi cambiano ancora una volta. Dal 1850 a oggi, il contributo dell’India alle emissioni cumulative storiche di CO2 è infatti molto basso, mentre i maggiori inquinatori diventano gli Stati Uniti, seguiti dalla Ue, con la Cina comunque in terza posizione, ma molto distante dagli Usa.
Emissioni CO2 per settore
Dal menu si possono scegliere i singoli paesi. Dati espressi in tonnellate metriche di CO2 per anno (Fonte: CO2 emissions of all world countries, 2022 Report)
La transizione energetica, con il passaggio a forme di produzione e consumo di energia meno inquinanti, coinvolgerà tutti i settori. In primo luogo sul lato dell’offerta. La produzione di energia, come si vede nel grafico sopra, è ancora il principale responsabile di emissioni di gas serra. Nella Ue, tutti i settori hanno aumentato le proprie emissioni di CO2 nel 2021 rispetto al 2020.
L’industria energetica e gli altri settori industriali hanno mostrato i maggiori incrementi (+9,1% e +6,7%, rispettivamente). Il settore dei trasporti ha recuperato meno della metà della diminuzione delle emissioni annue registrate nel 2020. La produzione di energia ha rappresentato il 44% delle emissioni della Cina, nel 2021.
Il ruolo di foreste e terreni agricoli
Emissioni e rimozioni di gas serra nel settore Land Use, Land Use Change and Forestry (LULUCF) (Fonte: CO2 emissions of all world countries, 2022 Report)
Il taglio delle emissioni di CO2 necessario per fermare il surriscaldamento globale non potrà avvenire senza il contributo della “natura”. Le foreste, in particolare, sono fondamentali nell’abbattere l’anidride carbonica immessa in atmosfera. La loro distruzione, come si vede nel grafico qui sopra, al contrario pesa in modo significativo sul cambiamento climatico, non solo perché indebolisce il potere lenitivo delle foreste, ma perché libera gas serra.
Si stima che il Land Use, Land-Use Change and Forestry (Lulucf) possa aver rimosso circa 3,9 Gt CO2 nel 2020, circa lo stesso livello di decennio precedente e il 12% in meno rispetto al 2010. Questa rimozione netta equivale a circa il 10% del totale emissioni di CO2 fossile di origine antropica.
Grafici realizzati in Flourish Flourish
Lista degli stati per emissione nel mondo
https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_emissioni_di_CO2